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Tecnologie di supporto

Parkinson: il futuro della stimolazione cerebrale profonda passa dal grafene

Scritto da Matteo Cucchi

Un gruppo di ricerca catalano propone una soluzione al compromesso miniaturizzazione-stabilità che, fino ad oggi, ha limitato lo sviluppo delle sonde per stimolazione cerebrale profonda. Sfruttando nuovi elettrodi in grafene, più piccoli ed egualmente stabili, gli autori aprono le porte a nuove possibilità neuroscientifiche e terapeutiche per la medicina personalizzata. La stimolazione cerebrale profonda è una elettro-terapia in grado di migliorare la qualità della vita in pazienti con sindromi neurorologiche e neurodegenerative resistenti ai farmaci tipicamenti prescritti per tali condizioni. Idealmente, la stimolazione elettrica consiste nell’applicare “elettroshocks” confinati nella regione cerebrale di interesse, spesso piccola, anche micrometrica. In realtà, questo è reso impossible dalla dimensione millimetrica degli elettrodi, che quindi non permette un’alta risoluzione spaziale e costringe il neurologo ad adottare correnti più elevate che influenzano un volume di tessuto eccessivo.

La sindrome di Parkinson

La sindrome di Parkinson è una malattia neurodegenerativa ad alta incidenza nella popolazione over 60. Oggi, in Italia, sono circa 300.000 le persone che ne soffrono, un numero destinato a crescere considerando il generale trend d’invecchiamento della popolazione [1] .

La causa esatta del morbo di Parkinson è ancora poco chiara, e altrettanto sconosciuta è una cura definitiva. Quel che sappiamo della sua eziologia è che alcuni neuroni, i neuroni dopaminergici, responsabili della produzione di dopamina, interrompono la loro attività e gradualmente muoiono. Questi neuroni sono particolarmente presenti in un’area del cervello chiamata gangli della base che, più o meno direttamente, dirige e influenza diverse funzioni, in particolare quelle legate alla regolazione motoria volontaria. Disregolando il delicato equilibrio dell’attività dopaminergica di queste reti neurali, la volontarietà di tali attività motorie diviene gravemente compromessa.

Nei casi più lievi o nelle fasi iniziali, la sindrome di Parkinson può presentare sintomi modesti. Ma con il progredire della malattia, emergono gravi deficit motori, in particolare tremori essenziali e blocchi del cammino (spesso chiamato ‘gait freeze’ o semplicemente ‘freezing’). Spesso, le terapie farmacologiche non alleviano tali disturbi.

Deep Brain Stimulation: meccanismo e chirurgia

È proprio quando il paziente non risponde a queste terapie che entra in gioco la stimolazione cerebrale profonda (DBS, dall’inglese, Deep Brain Stimulation). La DBS è una terapia generalmente efficace che, pur non curando nè eliminando ogni sintomo, aiuta a ridurli, spesso a un livello tollerabile. Sebbene relativamente efficace, è anche molto invasiva e poco selettiva.

L’idea è di modulare “gentilmente” l’attività elettrica in cui si verificano oscillazioni elettriche anomale, generalmente iperattive, interrompendo così i movimenti involontari (o i blocchi del movimento). Tuttavia, la posizione esatta da stimolare elettricamente è conosciuta solo in modo approssimativo, e un margine di errore è anche da tenere in conto durante l’inserzione. Per questo motivo, la sonda è dotata di più elettrodi (tipicamente tra 4 e 8, ciascuno con una superficie di circa 1 mm²). Eseguita la chirurgia, il neurologo applica impulsi elettrici a diversi elettrodi per verificare quale si trovi vicino all’area chiave e sia quindi più efficace (Figura 1).

Avere molti elettrodi microscopici, invece di pochi e millimetrici, permetterebbe una mappatura più granulare e una precisione maggiore nell’individuare i networks micrometrici, o addirittura singole cellule. Ma questo non è il caso dei dispositivi commerciali, e la ragione non è affatto banale.

Il funzionamento degli elettrodi

Per erogare corrente, gli elettrodi devono fornire cariche e queste, in concomitanza con la tensione che le genera, possono innescare reazioni chimiche dannose sia per il tessuto (producendo sottoprodotti tossici) sia per l’elettrodo metallico (degradandone la superficie e peggiorando le prestazioni elettriche). Per questo motivo, si usano materiali chimicamente inerti come oro, platino o iridio. Tuttavia, la loro elevata biocompatibilità ha un costo: un’alta impedenza. Ciò significa che, per erogare la corrente necessaria a stimolare il tessuto, è richiesta un’alta tensione. Questo implica il rischio di un surriscaldamento e la necessità di batterie grandi.

Un modo relativamente semplice per circumnavigare questo problema è aumentare l’area dell’elettrodo, dal momento che la capacità elettrica scala linearmente con la superficie. Di conseguenza, gli elettrodi sono fabbricati molto più grandi delle nostre capacità di miniaturizzazione, permettendo una maggiore stabilità elettrica e chimica, ma al contempo compromettendo la risoluzione spaziale e causando stimolazioni fuori bersaglio.
C’è però un altro ‘effetto collaterale’ legato alla necessità di ingrandire l’elemento attivo: l’intero dispositivo sarà più voluminoso. Ciò vuole dire che la procedura chirurgica risulterà più invasiva, sia durante l’impianto che durante l’espianto, e i rischi di danneggiare i tessuti cerebrali sani crescono.

La nuova frontiera: l’utilizzo del grafene

Sebbene il compromesso tra dimensione, impedenza e stabilità sembri un’inevitabile conseguenza geometrica, una nuova pubblicazione mette in discussione questo paradigma. Il gruppo di José Garrido, presso l’Istituto Catalano di Nanoscienza e Nanotecnologia (IC2N) di Barcellona, ha dedicato l’ultimo decennio allo sviluppo di elettrodi stabili e performanti basati su grafene, più precisamente su ossido di grafene ridotto (rGO). Il gruppo ha dimostrato più volte lo sviluppo di impianti bioelettronici con minuscoli elettrodi in grafene, impiantabili in modo cronico (in animali) e capaci di monitorare e registrare segnali elettrofisiologici in modo preciso e affidabile. I loro sforzi sono recentemente saliti alla ribalta con la spin-off INBRAIN che ha ricevuto 50 milioni di dollari per lo svillupo di brain-computer interfaces [2].

Non è affatto scontato che un buon elettrodo per la registrazione lo sia anche per la stimolazione. Quest’ultima comporta infatti l’erogazione di impulsi rapidi, ad alta tensione e alta frequenza, che possono degradare rapidamente gli elettrodi

In un nuovo lavoro pubblicato in Nature Communications, i ricercatori offrono ampia evidenza, sia in vitro che in vivo e con esperimenti cronici su ratti, che i loro impianti e i loro elettrodi sono in grado di sostenere stimolazione cronica a livelli clinicamente rilevanti per pazienti parkinsoniani [3]. Gli autori mostrano una stabilità elettrica prolungata (Figura 2A-B), fino a 100 milioni di impulsi, usando parametri tipici dei neurostimolatori clinici (impulsi di 100 µs bifasici, ampiezza 75 µA e frequenza 130 Hz). Quel che è veramente degno di nota è che questa affidabilità è stata ottenuta con elettrodi la cui area è solo 500 µm2, una superficie 50000 volte minore di quella degli elettrodi clinici e commercialmente disponibili.

Sketch of the DBS implant in graphene
micrograph of the DBS implant
Long term stability and EIS of the DBS implant
Figura 2. L’impianto bioelettronicoa base rGO. A) Sketch tridimensionale dell’impianto. B) Micrografia del corpo dell’impianto e un close-up dell’elettrodo. C,D) Stabilita’ in vitro: impedenza e transienti mostrano stabilita’ nel lungo termine. Credits (figure adattate da): Nature.com

Dopo un’esaustiva caratterizzazione della loro stabilità in vitro (Figura 2C-D), questi elettrodi sono stati microfabbricati su un substrato flessibile. Con l’aiuto di un supporto rigido dissolvibile, la sonda è stata inserita in nei gangli della base di modelli di ratto parkinsoniano. Durante l’inserzione, i micro-elettrodi hanno permesso di registrare con precisione potenziali d’azione da aree cerebrali distanti 100 µm, identificando così quali elettrodi fossero a contatto con l’area bersaglio e permettendo un posizionamento più accurato. Inoltre, tale miniaturizzatione ha anche permesso di integrare più elettrodi in un’area ridotta, riducendo la larghezza dell’intera sonda a soli 120 μm. Una tale riduzione della sezione è cruciale per minimizzare danni e infiammazione durante l’inserzione.

L’efficacia delle sonde è stata quantificata tramite un paragone tra la distribuzione della frequenza delle oscillazioni cerebrali prima (Pre-DBS) e dopo (Post-DBS) la stimolazione: come visibile in Figura 3A, prima della stimolazione la distribuzione è bimodale, mentre viene centrata intorno ai 50 Hz Post-DBS. Dopo 3 settimane nel cervello dei ratti, gli autori riportano una degradazione statisticamente non significativa (Figura 3B). Un risultato straordinario con chiare implicazioni traslazionali ottenuto grazie ad anni di dedizione del mettere a punto un workflow di microfabbricazione di elettrodi basati sul rGO.

Conclusioni

I risultati sono promettenti e fanno ben sperare nella lotta contro il Parkinson e nell’ottimizzazione delle terapie DBS. Non va dimenticato che la DBS non è una terapia efficace solo contro il Parkinson. La stimolazone profonda può essere diretta in diverse aree del cervello e viene infatti oggi utilizzata per molte altre condizioni neurologiche, dal tinnito all’epilessia.
Molto lavoro resta da fare prima che questa tecnologia possa essere testata sull’uomo, senza nemmeno parlare di approvazione clinica. Una buona parte di questo lavoro è di natura regolatoria più che scientifica, poichè pochissimi materiali sono approvati per questi impianti: oro, platino e platino-iridio. Nel frattempo, tecnologie di questo tipo rimangono preziose risorse per studi neuroscientifici di base su animali. Tutt’oggi infatti, molti dei meccanismi del Parkinson, così come della stessa attività curativa della DBS, sono ancora misteriosi e dispositivi elettronici come queste sonde flessiblili con elettrodi micrometrici possono supportare e avanzare la ricerca medica e neuroscientifica laddove la farmacologia non può ancora arrivare.


Fonti e approfondimenti
  1. Ospedaleniguarda.it – Parkinson, attenzione a quei segnali rivelatori
  2. PCB.eu – Inbrain Neuroelectronics raises $50 million in a Series B funding round
  3. Nature.com – Ria et al., Flexible graphene-based neurotechnology for high-precision deep brain mapping and neuromodulation in Parkinsonian rats, Nature Communications, 2025
  4. BioelectronicsDrop – Credits per l’immagine di copertina

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Informazioni autore

Matteo Cucchi

Dopo un PhD in fisica e un post-doc in neuroingegneria, Matteo e' ora editor scientifico per Nature Communications, dove si prende cura del contenuto di bioelettronica.

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