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Tecnologie di supporto Terapia e Chirurgia

Corax, la startup che progetta dispositivi medici per i paesi in via di sviluppo

A Natale, si sa, siamo tutti più buoni.
Loro lo sono tutto l’anno: sono Corax e sono una startup che progetta dispositivi medici per contesti poveri di risorse. Noi abbiamo avuto il piacere di intervistarli subito dopo il loro viaggio in Uganda e Tanzania, durante il quale hanno presentato per la prima volta il loro prodotto, the life box, ai medici locali e ricevuto feedback.

Ciao Caterina, come è andato il viaggio?

Il viaggio è andato bene, è stato intenso e fisicamente provante. Abbiamo girato un bel po’: siamo stati una settimana a Kampala, in Uganda, dove abbiamo frequentato una design school e visitato qualche ospedale della città, poi abbiamo viaggiato per due settimane in Tanzania, esplorando il Sud dello stato e presentando il nostro dispositivo nelle cliniche.

La scelta di intraprendere questo viaggio in ottobre in Uganda è stata dettata dalla vittoria del concorso ABEC (African Biomedical Engineering Consortium) che ci ha dato la possibilità di partecipare ad una design school focalizzata sulla progettazione di dispositivi biomedici adatti a contesti poveri di risorse. La Tanzania, come meta, si è aggiunta successivamente poichè, anche lì, come in Uganda, l’epidemiologia è forte e poi per una questione di contatti già presenti nelle aziende ospedaliere.

L’obiettivo del viaggio è stato quello di avere informazioni su come vengono trattati i pazienti e sull’epidemiologia all’interno dell’ospedale, nonché sui bisogni reali di pazienti e medici e, in seguito alla presentazione del dispositivo ideato, raccogliere feedback più tecnici sull’idea e sul dispositivo. Tutti si sono mostrati molto entusiasti, anche chi all’inizio sembrava scettico. Addirittura alcuni medici ci hanno chiesto come bisognasse procedere per l’ordine!

Senza dubbio il viaggio è stato molto utile per chiarire dettagli tecnici sul device, delineare gli step futuri e motivarci: Corax nasce da una mia esperienza di volontariato di 5 anni fa in Tanzania per cui, in questo senso, è stato importante andare in Africa con tutto il team cosicché ognuno, coi propri occhi, potesse vedere per cosa sta lavorando.

Fig.1. Foto di Caterina Giuliani, Franco Pradelli e Barbara Tommasini – fondatori di Corax – ed una studentessa in Tanzania.

Il primo prodotto di Corax è the life box. Ci puoi dire di cosa si tratta e cosa lo rende più adatto a contesti come quelli delle zone rurali di paesi in via di sviluppo?

Corax ed il suo primo prodotto, the life box (in Fig. 2), nascono dal mio lavoro di tesi magistrale in Ingegneria biomedica all’Università di Bologna.  Corax è un’idea di startup a vocazione sociale formata a marzo 2019 che conta tre fondatori, tre ingegneri biomedici, tra cui Franco Pradelli e Barbara Tommasini.

Il problema che vogliamo affrontare è legato al trattamento di bambini ustionati in paesi in via di sviluppo in Africa ed Asia, dove, a causa di mancanza di sicurezza (nelle cucine, in particolare) e sovraffollamento, si contano circa 20000 bambini ustionati al giorno. Inoltre, le strutture dedite al trattamento di questi pazienti sono rare e non adeguate e le medicazioni costosissime. 

Il nostro dispositivo, the life box, vuole essere una soluzione a questo problema e serve in particolare a prevenire le infezioni, che sono la principale causa di morte legata alle ustioni. The life box, contenitore flessibile che ricorda una tenda per l’ebola, fornisce un ambiente sterile per far sì che la lesione si rimargini e contiene una serie di sensori ed attuatori per il monitoraggio ed il controllo della temperatura, dell’umidità, un sistema di ventilazione filtrata ed un sistema di lavaggio.

Fig.2. Design, funzionalità, specifiche e benefici di the life box.

A queste funzionalità, necessarie per il trattamento delle ustioni, sono state aggiunte delle caratteristiche fondamentali per la commercializzazione del dispositivo in contesti poveri di risorse. Tra queste abbiamo il basso costo, l’indipendenza dall’alimentazione elettrica visti i frequenti blackout e la user-friendliness per far sì che venga usato con facilità anche da personale non specializzato.

Durante il nostro viaggio, molti medici hanno sottolineato il problema della donazione di dispositivi medici anche nuovi o tecnologicamente avanzati ma difficili da manutenere e riparare in seguito ad un piccolo guasto, ed è per questa ragione che abbiamo progettato the life box in modo da rendere le procedure di manutenzione ordinaria, come la sostituzione del filtro HEPA, il piu semplici possibili.

Ma le sfide nel design di dispositivi per paesi in via di sviluppo sono anche normative in quanto ogni paese ha una burocrazia diversa e poco chiara. In Italia si sa che è richiesta la marcatura CE ed è chiaro quali siano i passaggi per ottenerla mentre in molti paesi in via di sviluppo i regolamenti cambiano spesso, non è ben chiaro come si certifichino qualità e sicurezza e si esige la presenza di un partner locale.

Chi sono i vostri competitor?

Al momento non ci sono dispositivi del genere sul mercato. Ci sono tuttavia dei dispositivi che ricordano the life box per aspetto o per qualche funzionalità come Surgibox e le tende di isolamento per l’ebola, che però hanno una modalità di uso ed un’applicazione completamente diverse.

Il viaggio in Africa ci è servito anche a validare la nostra ricerca sullo stato dell’arte, confermando che non esiste un dispositivo simile usato in questi contesti. Il trattamento standard infatti implica l’uso massiccio di antibiotici per prevenire la sepsi e la degenza in un letto con una specie di gabbia, un bed cradle, rivestita di coperte in modo che le stesse non entrino a contatto con il sito ustionato (Fig. 3).

Diciamo che the life box sarebbe una versione all’avanguardia di questo dispositivo con in aggiunta la ventilazione, il filtro dell’aria ed il riscaldamento, facile da trasportare e trasparente così da non lasciare i bambini al buio. Una volta ci hanno aperto una di queste gabbie ed abbiamo notato la presenza di qualche mosca dentro!

Fig.3. Un bambino ustionato ricoverato in ospedale, che giace su un letto completato con bed cradle.

A chi si rivolge Corax?

Il dispositivo è stato progettato sulla base dei bisogni dei pazienti ed i nostri primi clienti saranno ospedali privati in Uganda e Tanzania. Durante il nostro viaggio, abbiamo capito che le strutture sanitarie private, che costituiscono una grande fetta delle strutture sanitarie in questi paesi, sono molto più semplici da avvicinare rispetto agli ospedali pubblici ed hanno una burocrazia più chiara.

A che punto siamo con lo sviluppo di the life box, quali saranno gli sviluppi futuri di questo prodotto e quali le nuove sfide per Corax?

Ad oggi, abbiamo un prototipo, un MVP (Minimum Viable Product), sul quale abbiamo ricevuto innumerevoli feedback positivi da parte di medici, professori universitari, esperti di mercati in paesi in via di sviluppo e mentor dell’Università di Bologna, dove siamo incubati.

In seguito ci piacerebbe collaborare con produttori e fornitori, con cui siamo già in contatto, per abbassare i costi e migliorare la sicurezza del device. Per ora programmiamo di produrre in Italia ma non escludiamo la possibilità di avere dei fornitori in loco e produrre, in futuro, in un paese come la Tanzania, per aumentare l’impatto sociale.

Corax non è una startup costituita ma visto l’interesse per il nostro primo prodotto contiamo di farlo al più presto. Ora ci stiamo concentrando sul problema ustioni ma in generale miriamo ad essere una startup che crea dispositivi accessibili a tutti i paesi. Riteniamo che ci sia una visione paternalistica in ambito sanitario verso paesi a basso reddito per cui si pensa di poter esportare e distribuire con successo i dispositivi progettati per i paesi industrializzati in contesti più poveri. Corax vuole invece progettare con l’Africa e non per l’Africa.

L’approccio che utilizziamo è quello della reverse innovation quindi progettiamo un dispositivo guardando alle risorse disponibili in un determinato contesto, con risorse scarse o di emergenza, e successivamente valutiamo l’interesse per questi dispositivi anche sui mercati occidentali.

Ad esempio, dal Centro Grandi Ustionati dell’ospedale Bufalini di Cesena c’è stata una forte risposta positiva soprattutto se si pensa ad applicazioni come il trasporto dei pazienti che deve essere effettuato in ambiente asettico ed il lavaggio per pazienti doloranti. The life box potrebbe poi essere usato anche dove non ci sono centri specializzati nel trattamento di ustioni e per abbattere il costo del trattamento.

Che consigli daresti ad un ingegnere biomedico che è particolarmente sensibile ai problemi di uno o più paesi in via di sviluppo e pensa di creare una startup?

Concentrati su un paese e parti, buttati! 

L’idea vincente non nasce dalla tua stanza in Italia quindi vai sul campo e capisci quello che si può fare insieme ai medici del luogo, collabora con loro. Ci sono molte possibilità come il progetto UBORA dell’Università di Pisa, che mira alla co-progettazione di nuove soluzioni medicali open source per l’Africa e l’Europa, e numerose associazioni con cui sarà facile entrare in questo mondo!

Fig.4. Franco Pradelli presenta the life box alla Camera di commercio di Milano.

Bibliografia e contatti
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Informazioni autore

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Maria Teresa Sposato

Mi piace lavorare con gli altri e per gli altri.
Dopo la laurea al Politecnico di Torino, ho conseguito un MBA ed oggi mi occupo di innovazione in un'azienda farmaceutica. I miei interessi rientrano in tutti i campi dell'ingegneria biomedica, scienza e business.

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