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Sistemi Protesici Terapia e Chirurgia

Jim Ewing e la protesi che gli ha permesso di scalare le Isole Cayman

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La storia di Jim Ewing, scalatore e ingegnere del MIT, racconta di un incontro fra ricerca e sport. Così lo scalatore, che perse un piede cadendo da una scogliera, potè tornare a scalare quella stessa scogliera, completando l’impresa. Tutto questo fu reso possibile grazie alla visione di un’equipe di ricercatori del MIT, che hanno di fatto realizzato la prima protesi di arto in grado di essere movimentata direttamente dal cervello, come se fosse parte del corpo umano.

Sport e ingegneria si incontrano

I protagonisti di questa storia sono due amici, entrambi ingegneri e amanti delle arrampicate, con storie simili e risvolti eccezionali. Si tratta di Jim Ewing e Hugh Herr (Figura 1).

hugh herr jim ewing protesi
Figura 1. Hugh Herr a sinistra, Jim Ewing a destra. Credits: A Journey to End Disability

Hugh Herr, oggi professore del MIT, ha perso entrambe le gambe in giovane età durante un’arrampicata. L’impossibilità di muoversi ha spinto il giovane alla ricerca di una soluzione, e da quel momento Herr ha dedicato i suoi studi e la sua carriera allo studio e alla progettazione di gambe bioniche, che rendessero lui, così come altri amputati, nuovamente capaci di muoversi, scalare e correre. Fin dal college ha, infatti, iniziato a disegnare protesi funzionali ed innovative, che gli permettessero di tornare a fare ciò che amava. Il suo primo successo sono state delle protesi motorizzate caviglia-piede; le prime in questo campo in grado di riprodurre l’azione di una gamba biologica e, per la prima volta, hanno fornito agli amputati un’andatura naturale (Figura 2).

Il suo incidente l’ha reso uno dei più creativi scienziati di biomeccatronica sul pianeta: oggi è alla guida del gruppo di biomeccatronica del MIT MediaLab, ha più di 120 pubblicazioni e più di 100 brevetti a suo nome.

Funzionali e valide, le sue protesi sono state messe in commercio dalla Ottobock con il nome EmPower, e oggi sono alle gambe di amputati in tutto il mondo.

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Figura 2. Il giovane Herr scala la parete al MIT Medialab’s h2.0 Symposium, il 9 Maggio 2007. Credits: Wikipedia

Anni dopo l’incidente di Herr, nel 2014, anche il suo collega e compagno di scalate, Jim Ewing, ha subito un incidente cadendo da un’altezza di circa quindici metri. Stava scalando le isole Cayman con degli amici e la figlia. Aveva subito molteplici fratture in tutto il corpo e perso una parte del piede sinistro, pur mantenendone la mobilità. A causa dei dolori lancinanti, ha poi deciso di amputare il piede e ha chiesto l’aiuto di Herr, suo amico di vecchia data. Gli venne proposto di sottoporsi ad un’amputazione d’avanguardia, a seguito della quale si sarebbe riusciti ad integrare una protesi innovativa, che gli avrebbe permesso di tornare a camminare, controllando di fatto la gamba come se fosse ancora connessa con il suo sistema nervoso. Grazie alla sua formazione ingegneristica, alla quale Ewing ha attribuito il sentire doveroso ed emozionante di prestarsi a una pratica chirurgica sperimentale, quest’uomo è diventato il primo soggetto a subire un nuovo tipo trattamento chirurgico. L’amputazione gli è stata poi dedicata, prendendo il nome di Ewing Amputation.

Video 1: Jim Ewing, Dynamic-Model Amputation Patient- Credits: Brigham and Women’s Faulkner Hospital

Pratica clinica dell’amputazione di arto

Nei secoli, la pratica chirurgica portata avanti in caso di amputazione non si è particolarmente evoluta, come invece è accaduto per i dispositivi di cui vengono dotati pazienti per consentire loro di recuperare, anche solo parzialmente, la capacità di svolgere attività di vita quotidiana.

Spesso nelle amputazioni di emergenza (come quella subita improvvisamente a valle di un evento traumatico non previsto) non si eliminano dal moncone quei muscoli residuali. Nonostante tali muscoli fossero necessari prima del trauma (dell’incidente o della malattia che ha causato l’amputazione) alla movimentazione dell’arto, essi risultano inutilizzati dopo tali operazioni e vengono quindi, in sala operatoria, attorcigliati attorno all’osso. Questa pratica porta inevitabilmente all’inflaccidimento della muscolatura, non più utilizzata per mobilitare gli arti distali che sono stati, per l’appunto, amputati.

Cosa comporta l’inflaccidimento della muscolatura?

A partire da una perdita di tono muscolare, si ha il deterioramento dei tessuti. Quando si ha un’amputazione e il tessuto che deve essere attaccato alla protesi, tramite l’invaso, è completamente molle, il paziente può avere gravi problemi legati, ad esempio, alla generazione di piaghe sulla pelle.

Invece di agire sulla pratica chirurgica, ed evitare il completo deterioramento dei tessuti molli, si è provveduto a sviluppare invasi morbidi, che migliorassero la vestibilità della protesi. Quando però, si hanno amputazioni agli arti inferiori, il problema persiste, poichè nel muoversi i pazienti vanno a scaricare tutto il peso proprio sulla protesi, e quindi sui tessuti inflacciditi.

Oltre a ciò, la vecchia tipologia di amputazione non permette al soggetto amputato di percepire la protesi come arto. C’è la percezione dell’arto fantasma, perché le terminazioni nervose ci sono, ma il soggetto le percepisce come rigide, non riesce di fatto a controllarlo e non ha un feedback di sensibilità.

L’operazione innovativa del MIT

Obiettivo del professor Herr era quello di creare un sistema che non solo mettesse in comunicazione il sistema nervoso con la meccatronica (sistema efferente) per pilotare l’arto, ma anche che mettesse in comunicazione la meccatronica con il sistema nervoso (afferente, sensory feedback). Questa bidirezionalità tra sistema nervoso e meccatronico permetterebbe non solo ai soggetti amputati di muovere autonomamente motori sintetici per muovere le gambe, ma anche di avere delle sensazioni di ritorno.

L’idea dei ricercatori del MIT è stata quella di generare un’interfaccia a partire dalla relazione tra muscoli agonista ed antagonista, invece di lasciare che la muscolatura residua si inflaccidisca, come avviene nella chirurgia tradizionale.

La tecnica che si fonda su questo principio prende il nome di Agonist-antagonist myoneural Interface (AMI). Se si mettono chirurgicamente due muscoli in serie (Figura 3), è possibile stimolare elettricamente il muscolo agonista (che si contrae), così da allungare il muscolo antagonista, che manda il segnale neuronale al cervello, comunicando anche sensazioni propriocettive.

Agonist-antagonist myoneural Interface muscoli
Figura 3: Schematizzazione della AMI. Credits Techniques in Orthopaedics

Questa nuova operazione chirurgica permette di creare sistemi agonista-antagonista nella regione dell’amputazione. Per ogni coppia di muscoli è possibile controllare un movimento (un grado di libertà) dell’arto amputato. Infatti, il soggetto può, con la sua volontà, contrarre il muscolo agonista così da ottenere il movimento. Sul muscolo sono predisposti dei sensori che inviano il segnale alla protesi, successivamente il feedback della protesi viene inviato, tramite elettrodi impiantati sul muscolo antagonista, direttamente al soggetto, che percepisce il movimento e controlla la macchina.

I risultati dell’impianto su Jim Ewing

Su Jim è stata proprio testata questa nuova tipologia di amputazione, nel suo caso relativamente al piede. Invece di eliminare tutti i tessuti distali, come normalmente si fa a valle delle amputazioni, è stato possibile collegare tra loro due coppie di muscoli agonista-antagonista tramite i canali sinoviali (canali biologici della caviglia) riposizionati sulla tibia. Potendo ogni coppia di muscoli controllare un grado di libertà della caviglia, agganciandone due coppie è stato possibile restituire a Ewing sia la flesso/estensione che la intra/extra-rotazione.

Agganciando quindi la protesi con questo sistema, il soggetto riusciva a percepire tutto il range articolare dell’arto mancante – e quel range articolare era lo stesso poi performato dalla protesi (Figura 4).

A valle dell’amputazione, effettuando delle misurazioni della mobilità muscolare tramite elettrodi di superficie, si è notato come i segnali fossero distinti chiaramente, sviluppando quindi un algoritmo di controllo per distinguere i diversi movimenti.

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Figura 4. Schematizzazione della percezione dell’arto. Credits: A Journey to End Disability

Quello che è accaduto è che il soggetto non si doveva sforzare per muovere la meccatronica, ad esempio durante i task di salita e discesa delle scale (Video 2). Con grande sorpresa e contentezza dei ricercatori, tutti i movimenti erano naturali.

Video 2: Walking upstairs after the AMI procedure – Credits: MIT Media Lab

Si è attivata quindi la restituzione sensoriale sul muscolo antagonista, mettendo in comunicazione meccatronica e sistema nervoso.

Il robot è diventato parte di me

Jim Ewing

La conferma dell’embodyment (concetto per cui si considera anche la protesi come una parte del corpo, senza considerarla solamente come un tool, come un dispositivo) del paziente è arrivata quando, chiacchierando con i ricercatori, Ewing si è messo a gesticolare con il piede meccatronico, senza neanche rendersene conto.

In questo modo è stato generato il primo vero Cyborg.

A valle dell’operazione e della riabilitazione, Ewing è tornato a scalare. Con al piede una protesi bionica disegnata per lui dal MIT si è arrampicato sulla stessa parete di roccia da cui era caduto, questa volta arrivando fino in cima (Figura 5).

protesi bionica ewing
Figura 5. Protesi bionica di Ewing. Si possono distinguere i sottosistemi componenti la protesi: attuatori lineari, piedino per arrampicata su roccia personalizzato, giunto a U della caviglia 2 gradi di libertà, staffa di montaggio dell’attuatore, elettronica e copertura protettiva. Credits: IEEE

Ulteriori sviluppi della tecnica AMI

Quella di Jim Ewing è stata la prima amputazione eseguita con la tecnica AMI su paziente umano.

Dopo i successi delle sperimentazioni avvenute sul paziente pilota, sono state effettuate altre due amputazioni con la stessa tecnica, questa volta però ad altezza trans femorale (sopra il ginocchio).

Negli utilizzi successivi di questa tecnica chirurgica, sono stati utilizzati elettrodi impiantabili a livello neurale, così da ottenere un sistema più pulito e libero dai cavi che, nel caso di Ewing, uscivano dalla gamba del soggetto. A seguito dell’amputazione, si procede alla rigenerazione dei fasci nervosi dei muscoli interessati, così da poterli poi collegare a elettrodi impiantati nell’organismo. I cavi degli elettrodi (fili azzurri, Figura 6) si fanno passare all’interno del femore, appositamente preparato. Tramite osteointegrazione, il femore si vincola rigidamente a un sistema meccanico, che serve come sistema di ancoraggio della protesi. L’obiettivo prinicipale è la realizzazione del passaggio per i cavi degli elettrodi attraverso l’osso, così che possano arrivare alla protesi senza passare dall’esterno (Figura 6).

Amputazione AMI protesi bionica cyborg
Figura 6. Amputazioni AMI. Credits: A Journey to End Disability

Uno sguardo al futuro

I risultati sperimentali di questa pratica chirurgica sono molto promettenti. Oggi l’amputazione di Ewing sta iniziando a diffondersi e a sostituire l’amputazione tradizionale, almeno per quanto riguarda gli arti inferiori.

Un limite di questa pratica riguarda la possibilità di eseguire movimentazioni distinte. Come detto inizialmente, ad ogni coppia di muscoli è associato una diversa capacità di movimento (flesso/estensione, adduzione/abduzione o intra/extra-rotazione). E’ perfetta quindi laddove si debba recuperare una mobilitazione, ad esempio, della caviglia, sfruttando i muscoli residui della gamba. Se però si hanno amputazioni più prossimali (e quindi più vicine al busto) può essere complicato ripristinare tutte le movimentazioni, perchè occorrerebbero altrettanti muscoli residui.

Ad esempio, se si ha un’amputazione a livello di spalla (che ha tre gradi di libertà) e si vogliono ripristinare la mobilità del polso e del gomito, saranno necessarie sette coppie di muscoli residui. Alcune linee di ricerca si stanno muovendo per integrare quindi l’amputazione di Ewing con altre tecnologie, come ad esempio la re-innervazione muscolare mirata (TMR).

Di certo, la metodica di impianto di protesi sviluppata dai ricercatori del MIT ha effettivamente aperto la strada a nuove e più avanzate tecnologie per poter consentire un recupero sempre maggiore delle funzionalità biomeccaniche perse a seguito di traumi o incidenti.


Fonti e approfondimenti

L’immagine di copertina è dell’articolo “Pioneering surgery makes a prosthetic foot feel like the real thing” (MATTHEW ORR/STAT).

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Informazioni autore

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Francesca Schettino

Laureata in ingegneria biomedica presso l'Università Campus Bio-Medico di Roma, ho svolto il mio tirocinio di tesi magistrale presso la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa.
Appassionata di tecnologia ed innovazione mi piace coniugare competenze tecniche e capacità comunicative.

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