Nei laboratori dell’Istituto TIGEM di Pozzuoli e dell’Università di Modena e Reggio Emilia si sono recentemente condotti studi preclinici incentrati sull’editing genomico per la cura di alcuni tipi di retinite pigmentosa. Nel mentre, ingegneri e neuroscienziati della Scuola di Ingegneria di Losanna lavorano allo sviluppo di POLYRETINA, una retina artificiale fotovoltaica che aiuti coloro che hanno già subito gli effetti nefasti della malattia.
Dalla retinite pigmentosa alle protesi visive
L’importanza dei sistemi protesici visivi è ben nota alla comunità scientifica. Il mese di marzo 2021 si fa portatore di una grande novità nel settore delle protesi visive con POLYRETINA, una protesi epiretinica (posizionata cioè sulla retina), fotovoltaica e ad ampio angolo visivo. Ad avanzare la proposta di tale innovazione, un team di ricerca dell’EPFL’s School of Engineering guidato dal Professore Diego Ghezzi, che dal 2015 lavora allo sviluppo di un nuovo impianto retinico in grado di fornire agli ipovedenti una visione artificiale utilizzando elettrodi che bypassino le cellule retiniche danneggiate.
Il termine “retinite pigmentosa” fa riferimento a una patologia ereditaria ad alto tasso di incidenza, con modalità di trasmissione autosomica recessiva, x-linked e autosomica dominante. Tale patologia colpisce la retina, inducendo una degenerazione progressiva dei suoi fotorecettori. Insorge con cecità notturna, seguita da una graduale riduzione del campo visivo periferico, e può portare a cecità completa nell’arco di diverse decadi. Ad oggi non esiste una terapia scientificamente approvata che possa rallentare la malattia, né tantomeno curarla. Le protesi visive sembrano essere l’unico modo per supportare i pazienti a cui é stata diagnosticata questo tipo di patologia.
L’obiettivo di POLYRETINA
Quando si parla di protesi visive si pensa subito a tecnologie miracolose e si resta puntualmente delusi quando si vedono i risultati effettivi. In questo, il Professor Ghezzi e il suo team preferiscono essere chiari.
L’obiettivo non è replicare la vista umana, che potrebbe risultare ancora troppo ambizioso come intento, ma trovare una soluzione alternativa che possa restituire l’autonomia a chi soffre di patologie a carico dell’apparato visivo.
Prof. diego ghezzi
L’idea di base non dista dall’attuale concezione di protesi visiva, che si riferisce a un dispositivo in grado di tramutare i dati raccolti dalla scena visiva in un treno di impulsi nervosi, tramite una videocamera. La stimolazione nervosa avviene mediante una componente intraoculare, cioé un array di microelettrodi posto sulla superficie della retina.
Dalla precedente versione risalente al 2018, POLYRETINA ha subito diverse modifiche: ad esempio l’incremento del numero di elettrodi destinati alla stimolazione retinica, passato da 2300 a ben 10500.
Capiamo meglio di cosa si tratta.
Vediamoci chiaro: come funziona l’apparato visivo?
Più della metà dei recettori sensoriali del nostro corpo è collocata negli occhi e gran parte della nostra corteccia cerebrale è dedicata alla decodifica e all’elaborazione delle informazioni relative agli stimoli visivi. La retina è una componente chiave nell’acquisizione dell’informazione visiva, è l’involucro più interno del bulbo oculare ed è formata da due strati: quello nervoso e quello pigmentato.
Nella retina ci sono due tipi di fotorecettori (i.e., cellule specializzate all’elaborazione degli stimoli luminosi): coni e bastoncelli (Figura 1). I primi, sensibili a luci più intense, permettono la formazione di immagini a colori molto nitide. I secondi, invece, sono attivati anche in condizioni di scarsa luminosità, ma permettono di vedere solo sfumature di grigio.
In particolar modo, nei bastoncelli è contenuto un fotopigmento chiamato rodopsina, composto da un enzima chiamato opsina e da un pigmento, derivato della vitamina A, chiamato retinene.
Nel momento in cui la rodopsina assorbe un fotone, il doppio legame della molecola viene momentaneamente rotto, liberando così l’opsina. Questa separazione genera una chiusura dei canali ionici del sodio/calcio delle cellule nervose, abbassando il potenziale di membrana (da -40 mV a -75 mV).
La risposta neurale viaggia attraverso le cellule bipolari fino alle cellule gangliari, l’ultimo stadio di processamento della retina. Da lì, tale risposta procede verso il nucleo genicolato laterale e viene elaborata nella corteccia visiva primaria, passando per il nervo ottico.
L’area occupata dai fotorecettori a cui una cellula gangliare è sensibile è definita “campo recettivo“.
POLYRETINA: il segreto è nella conversione di energia
Ad oggi si distinguono due tipi di protesi visive, in base al posizionamento preciso dell’array in questione:
- epiretinica – nelle quali la stimolazione avviene sulla superficie frontale della retina, precisamente sulla membrana limitante interna;
- subretinica – di cui fanno parte i sistemi che attuano la stimolazione nervosa nella porzione di spazio compresa tra la retina e lo strato retinico pigmentato.
Nonostante queste tecnologie continuino a dare un’alternativa a chi soffre di patologie a carico del sistema visivo, esse hanno ancora delle importanti limitazioni. Ad esempio, la qualità dell’immagine artificiale fornita dal sistema retinico Argus II, di cui abbiamo già discusso, è ancora troppo lontana da quella reale. Inoltre, necessita di cavi che fuoriescano dal bulbo oculare per fornire l’alimentazione al sistema di elettrodi.
POLYRETINA, ispirandosi alle lenti a contatto, ne eredita la forma semisferica. I suoi 10500 elettrodi sono ricoperti di nitruro di titanio, che ne aumenta sia l’efficienza di stimolazione sia la resistenza allo stress meccanico. Qualche numero? Ogni elettrodo misura 80-100 μm di diametro e l’insieme è distribuito su una superficie di 13.4 mm2, coprendo un angolo visivo di circa 43°.
Rispetto alle precedenti tecnologie, POLYRETINA è una protesi epiretinica che garantisce una densità di pixel molto più alta unita ad un angolo visivo maggiorato (Figura 2). Inoltre, con l’ausilio della tecnologia fotovoltaica, l’array di micro-elettrodi riesce a stimolare le cellule retiniche convertendo l’energia luminosa in elettrica.
La raccolta e l’elaborazione degli stimoli visivi, che vengono poi tramutati in impulsi elettrici, è affidata ad un sistema esterno composto da una videocamera, un videoprocessore (VPU) e un microproiettore. E’ quest’ultimo a raccogliere i dati elaborati dal VPU e ad attivare gli elettrodi della componente intraoculare con una serie di segnali luminosi modulabili in intensità e durata. Grazie a questo sistema di trasmissione dei dati e alla tecnologia fotovoltaica, la protesi non richiede il cablaggio previsto nelle precedenti tecnologie (Figura 3).
Al fine di evitare eventuali crosstalk (interferenze elettromagnetiche) all’interno del pattern di elettrodi durante il processo di stimolazione, il team di ricerca ha esaminato diverse combinazioni di pixel attivi/disattivi, misurandone il voltaggio lungo tre direzioni e riscontrando una notevole precisione di stimolazione (Figura 4). Questa precisione è una caratteristica fondamentale per una protesi visiva, dato che stimolando punti diversi della retina si possono ottenere dei fosfeni (punti luminosi nel campo visivo) in punti specifici del campo visivo.
Il Professor Ghezzi sottolinea che l’aspetto da valutare in questo tipo di protesi non é la “risoluzione”, bensì l’angolo di visuale: sembra essere proprio questa proprietà a donare le abilità spaziali all’ipovedente.
L’iter chirurgico
Nella fase di progettazione si è pensato ad un dispositivo facile da impiantare in posizione epiretinica: grazie alla sua flessibilità, POLYRETINA può essere infatti arrotolata e inoculata all’interno del bulbo oculare in un apertura di soli 6 mm, con l’ausilio di una speciale pipetta. Una volta inoculato, l’array riacquista la sua forma originaria, garantendo che il pattern di elettrodi non risulti danneggiato.
Limiti e prospettive future
Il processo di generazione dei fosfeni non é ancora del tutto chiaro. Alcuni fenomeni come la stimolazione involontaria degli assoni delle cellule gangliari possono alterare la stimolazione nervosa rendendone i risultati imprevedibili. Il team del Professor Ghezzi e il suo team lavorano per capire come evitare questi fenomeni mediante l’utilizzo dei materiali giusti.
Inoltre, al fine di aumentare la densità di pixel (e aumentare la risoluzione dell’immagine artificiale), il team intende proporre altre versioni di POLYRETINA con numero di elettrodi ancora maggiore, cercando una soluzione alla diminuzione dell’efficienza di stimolazione che si ottiene riducendo la dimensione di ogni singolo elettrodo.
Alcuni pazienti a cui sono stati impiantati sistemi protesici come l’Argus II (non di nuova generazione come POLYRETINA) riportano che ad oggi non ne fanno più uso. Affermano che gli effetti non solo non sono ancora tali da migliorare la vita quotidiana, ma in alcuni si rivelano estenuanti sia dal punto di vista fisico che mentale. In attesa dei primi test clinici su POLYRETINA e tecnologie simili, la speranza è che la ricerca possa condurre oltre l’immaginario e, finalmente, raggiungere un obiettivo che ancora oggi sembra “fantascientifico”: ridare la vista a chi non ce l’ha più.
Fonti e approfondimenti
- Nature.com – Photovoltaic retinal prosthesis restores high-resolution responses to single-pixel stimulation in blind retinas
- ScitechDaily.com – Retinal Implants Equipped With 10,500 Electrodes to Give Artificial Vision to the Blind
- TechCrunch.com – Quest for prosthetic retinas progresses toward human trials, with a VR assist
- EPFL News – A retinal implant that is more effective against blindness